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TRA DUE MARI

di Giuseppe Frangi, Giugno 2022

Si parte. Direzione Nord, senza tentennamenti, per un’attrazione che si frappone al dettato di un destino. Si parte. Milano, passaggio a Lugano, poi direzione lago di Costanza; da lì la lunga galoppata per attraversare la Germania; arrivati a Dresda, un altro balzo in direzione di Danzica. Eccolo, alla fine, l’agognato Baltico, quel mare teso, sempre in lotta con la luce. Un mare di ferro chiamato a rispecchiare l’epopea operaia polacca che aveva cambiato la storia a fine Novecento e che Wajda ha raccontato nei suoi grandi film. Si distende davanti agli occhi, con il suo fascino insidioso. «Sehnsuchts landschaft», dicono i tedeschi: paesaggio su cui spirano aneliti e struggimenti. Man mano che si percorre la costa si moltiplicano quei grovigli della storia che l’attualità sta un’altra volta portando allo scoperto: l’oblast di Kaliningrad, l’exclave russa tagliata fuori dal contatto fisico con il Paese di cui è diventato parte dopo l’annessione del 1945. Prima di prendere il nome da un eroe bolscevico e capo di stato dell’Unione Sovietica, Michail Ivanovič Kalinin, Kaliningrad era stata Königsberg, in tedesco, quando era parte della Prussia orientale. Ma era anche Królewiec per i polacchi, Karaliaučius per i lituani, e Kenigsberg per la popolazione yiddish. Oggi quei nomi sono purtroppo solo illusione di un melting pot che è stato ingabbiato nelle nuove cortine d’acciaio, pauroso punto di attrito tra potenze globali.


È importante capire cosa attragga Barbara Nahmad su una rotta così divaricante rispetto alle sue origini. La sua storia parla di altri mari, in particolare del Mediterraneo che suo padre e sua madre avevano attraversato, costretti a lasciare l’Egitto dove erano nati. Un mare caldo, caldo per la latitudine come per i fuochi che qui la storia ha continuamente acceso. Un mare che ha trasmesso la dimensione della sabbia, il calore della memoria, l’impronta di un’appartenenza ai lavori suoi più noti, quelli del ciclo che non a caso ha per titolo «Eden» e che è documentato in mostra da un’opera testimone: «Castello di sabbia».


La bussola di Barbara però, a volte, ha il magnete inchiodato in direzione del Nord: non c’è ombra di esitazione in questo suo voltar le spalle e andare fin lassù, al 59esimo parallelo e oltre. È un Nord senza mediazioni, che attraverso la sua pittura s’imprime con radicalità sulle tele. È essenziale nei suoi elementi: terra e cielo si toccano e si specchiano, con la sola variante delle nuvole o dell’increspatura delle acque. Possiamo immaginarci lei, Barbara, come il viaggiatore di Friedrich, affacciata su quello spettacolo di una natura che per vastità e intensità toglie il respiro. Non la vediamo, ma sappiamo che è lì, di fronte al mare, senza che nulla si interponga davanti al suo sguardo. È una prospettiva implicita, non dichiarata: non sono vedute del mare, ma vedute «nel» mare. Non c’è spiaggia, non c’è l’appiglio di uno scoglio, non c’è un’intercapedine a garantire una posizione esterna a chi guarda. Il mare lassù al Nord ha una dimensione psichicamente totalizzante. Viene da chiedersi cosa ci sia sull’altra sponda evocata dal titolo del ciclo, «Oltremare». «Oltremare, avverbio. Oltre il mare, con riferimento generico a paesi situati al di là del mare o degli oceani», spiega il Dizionario Treccani. Ma davanti a queste opere, quali terre dobbiamo attenderci?


In realtà nessuna. Acqua e cielo sembrano incernierarsi l’una con l’altro, in una sorta di autosufficienza che toglie terreno – è proprio il caso di usare questa metafora – ad altre ipotesi: difficile presupporre un’altra sponda. L’«oltre» probabilmente va visto in una diversa accezione. Suggerisce un «oltranzismo» del mare, un suo proporsi come un’entità non circoscrivibile, come canale ottico che ha per confine un infinito. È proprio il taglio dell’immagine, messo in atto ogni volta senza eccezioni e senza arretramenti, a portarci verso questa linea di lettura. Il viaggio al Nord ha dunque spazzato via le interferenze e ha messo fuori gioco ogni tentazione di scivolare nel vedutismo. Aggiungo che la scelta di esporre in alcuni casi i quadri di «Oltremare» non appesi ai muri ma appoggiati ai ciocchi di legno (dispositivi famigliari, che anche in studio ne accompagnano le fasi realizzative), costringe noi che guardiamo ad affrontare un «a tu per tu» con il mare. Siamo pure noi di fronte a quella distesa di acqua, chiamati a immaginarci non davanti ma «nel» quadro.


C’è poi un’altra costante in queste opere, che le definisce non solo visivamente ma anche psichicamente. Torniamo ad immaginarci Barbara davanti delle acque del Baltico, che si distendono come una lama; non ha con sé tela né pennelli, perché il lavoro che l’attende deve passare, come constateremo, per una metabolizzazione che è sia emotiva che mentale. Tuttavia, come abbiamo visto rispetto al taglio delle immagini, la scelta del punto di vista è precisa e calcolata. Barbara decide sempre di tenere il sole, quando c’è, dietro le spalle: l’unica eccezione è con «L’oro sull’acqua», ma in questo caso è un sole neutralizzato da un tramonto un po’ siderale, distante, quasi sfibrato dall’incalzare del buio. In tutti gli altri, nella spartizione dello spazio tra cielo e mare, per il sole tutt’al più c’è la possibilità di palesarsi di riflesso, accendendo la massa delle nuvole con schegge di luce. Il Nord di Barbara è esperienza davvero totalizzante, perché implica che l’orientamento dello sguardo vada in questa direzione.


Si potrebbero trovare infiniti riferimenti letterari alle situazioni proposte dai vari atti di «Oltremare». Personalmente ho in mente le meravigliose pagine di Joseph Conrad (che, per inciso, era nato proprio in Polonia e di vero nome faceva Józef Korzeniowski) in Linea d’ombra, con quel mare stregato, costantemente in stallo: era un mare del Sud, ma reso ugualmente impermeabile alla dimensione del tempo.


Tuttavia, parametrarsi alle suggestioni della letteratura rischia di portarci fuori strada, perché, come già abbiamo potuto rilevare, la componente decisiva di queste opere di Barbara Nahmad è una componente mentale, opposta e complementare a quella narrativa che invece è alla base del ciclo «Eden» e che ritroviamo in un’altra opera proposta nel percorso della mostra come una sorta di spin off: «L’epoca e i lupi», ispirata da un’immagine virale dei mesi del lockdown e ambientata nello scenario di una spiaggia che la situazione specifica storica apparenta ad un deserto.


Con «Oltremare» siamo invece di fronte ad impianti compositivi di impronta seriale, nei quali ogni volta si inseriscono varianti, atmosferiche e di luce, anche dirompenti, che però non minano mai la struttura di base della composizione. Barbara porta allo scoperto la propria vocazione a una visione romantica della natura e del mondo, ma poi la disciplina e la mette sotto il controllo di una griglia dalla quale giustamente non deroga. È una griglia così strutturata che a volte si ha la sensazione che le opere possano procedere quasi in automatico, come accade davanti alle serie di quadri piccoli, che sono oltretutto disciplinati dal rigore implicito nel formato quadrato; un formato che imbriglia la propensione istintiva verso vedute distese in orizzontale. L’installazione con la pila di piccole tele tenute coperte ma tutte dipinte, come si evince dalle colature sui bordi, evoca un processo alchemico che porta la visione del Nord a trasferirsi e imprimersi in pittura, sigillandosi però dentro quel rapporto di spazi predefinito.


Non tocca mai agli artisti essere espliciti rispetto a certe loro scelte (anche perché tante volte non ne sono consapevoli: ed è una fortuna per loro e per noi). Tuttavia Barbara Nahmad ci viene incontro fornendo una possibile chiave di decifrazione. Si tratta dell’opera «L’estremo confine», una veduta di un mare tirato come una lamina di ferro, dominato da un cielo acceso invece da un biancore del tutto asimmetrico. È da lì che scende il filo di uno scandaglio, non dipinto ma reale: si tratta di un oggetto che per Barbara Nahmad ha un valore affettivo e di memoria, in quanto lo aveva trovato su una spiaggia siciliana quando era ragazzina; il padre poi pazientemente lo aveva sistemato e rimesso in funzione. L’artista affidandolo ora ad un suo quadro, in sostanza se ne priva, facendone un oggetto parlante: lo scandaglio ci dice che il ciclo «Oltremare» nasce dal desiderio di sondare la profondità di un mistero. Il suo puntatore indica la linea dell’orizzonte, quella demarcazione precisa, affilata, quasi astratta, che separa il mare dal cielo. È quello il punto di genesi delle immagini, il magnete che risucchia Barbara verso questo Nord. «Oltremare» non c’è una terra a cui approdare, ma un mistero da esplorare e con il quale, grazie all’esperienza della pittura, provare a familiarizzare.

 


OLTREMARE

di Angelo Crespi


“Onde lunghe. Arrivano e s’infrangono, arrivano e s’infrangono, una dopo l’altra senza fine, senza scopo, solitarie e vagabonde. Eppure danno un tal senso di quiete e di conforto, come le cose semplici e necessarie, sempre più ho imparato ad amare il mare […] Che uomini sono quelli che preferiscono la monotonia del mare? Mi sembra che siano di quelli che hanno scrutato troppo a lungo, troppo profondamente nel groviglio delle cose interiori, per non cercare in quelle esteriori una cosa sola, la semplicità”. Il senatore Buddenbrook aveva questi pensieri osservando il mar Baltico dalla spiaggia di Travemünde, fuori dalla città di Lubecca che fu capitale della Lega Anseatica e patria di Thomas Mann il cui romanzo più celebre narra, appunto, l’ascesi e la caduta dei Buddenbrook, famiglia della grande borghesia tedesca educata alla rigida etica protestante e destinata a tramontare. Il mar Baltico è un mare interno dell’oceano Atlantico su cui si affacciano vari paesi del Nord (la Germania, la Svezia, la Finlandia…) e vi sboccano grandi fiumi, tra cui il più letterario è la Neva che taglia San Pietroburgo. Costretto all’esilio dal regime comunista, il poeta Iosif Brodskij vagheggiava la sua patria, la Russia, dalla sponda opposta di quel mare, da Stoccolma, mentre ritirava il premio Nobel: “Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove / onde grigie di zinco vengono a due a due;/ di qui tutte le rime, di qui la voce pallida/ che fra queste si arriccia, come un capello umido;/ se mai s’arriccia. […] In questi piatti paesi quello che difende/ dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede/ più lontano. Soltanto per il suono lo spazio è ostacolo:/ l’occhio non si lamenta per l’assenza di eco”. Brodskij e Mann guardavano le medesime onde, onde grigie color zinco che arrivano a due a due, che s’infrangono una dopo l’altra senza fine, senza scopo; stavano sotto lo stesso cielo. Onde e cieli lividi di oceano, quelli che oggi dipinge Barbara Nahmad in una nuova serie di opere, assai diverse dal lavoro precedente tutto centrato sulla figurazione, per certi versi pop. In “Oltremare” le figure umane a cui ci aveva abituati sono sparite, restano le nuvole, resta la linea dell’orizzonte tra aria e acqua, resta un colore tumido e di quasi tempesta. Non crediamo che questa scelta sia semplicemente dettata dalla noia, dal desiderio di cambiare dopo lunghi anni in cui aveva fortificato uno stile preciso e riconoscibile, piuttosto è un modo diverso di vedere e percepire le cose. Non azzardiamo nessuna analisi psicologica, certo è che lo sguardo della Nahmad si è fatto introspettivo come succede proprio a quelli che hanno scrutato troppo a lungo e profondamente nel groviglio delle cose interiori, per non cercare in quelle esteriori la semplicità. Una semplicità che però tende alla densità, perché la sua pittura, che è stata fino a questo momento semplicemente descrittiva, si affina, cerca non più la rappresentazione, bensì insegue la rivelazione. Non ho tema a definirla una pittura metafisica, e proprio nel suffisso “oltre” (in greco “meta”) anche del titolo “Oltremare” si palesa l’intento di scavalcare il muro del sensibile e del reale, ma – si badi – non utilizzando l’escamotage tipico del Surrealismo, cioè con la catabasi nell’imo magmatico dell’inconscio, semmai con la razionalità tipica del filosofo che vuole andare oltre gli elementi contingenti dell’esperienza empirica, gli accidenti, per occuparsi invece degli enti, e ancor di più della verità della realtà: che alla fine è il primo e irrimandabile compito dell’arte, cioè la speculazione sull’essere in quanto essere, la meditazione sulla irrisolta domanda che risale da Parmenide a Heiddeger: “perché l’essente e non il nulla”. C’è però un’altra vena a cui rimandano i nuovi quadri della Nahmad ed è quella del Romanticismo, nell’idea forte che l’arte debba rappresentare il sublime, non il bello. I cieli alla John Constable, fitti di nuvolaglie blu violacee (si ricordi “Rainstorm over the Sea” del 1828 che anticipa di un secolo la modernità), i mari procellosi alla William Turner, danno allo spettatore, specie nelle grandi dimensioni in cui ce li presenta la Nahmad, l’idea di infinito e vastità della natura rispetto alla finitezza e miseria dell’umano. E se Caspar Friedrich raffigurava nelle sue tele uomini annichiliti di fronte alla violenza degli elementi naturali, nei quadri di Barbara i protagonisti di questo spaesamento siamo noi che osserviamo da fuori lo svolgersi della scena. E la sensazione di spaesamento di fronte all’infinito genera terrore, quel “dilettoso orrore” (delightful horror), per dirla con Edmond Burke, che è causa e motore del sublime. D’altronde, lo scrive in modo definitivo Rilke nella prima delle Elegie duinesi che “la bellezza non è che l’emergenza del tremendo”, e l’emergere, l’appalesarsi subitaneo del terrificante muove il nostro sentimento, ci agita, ci commuove poiché capiamo la nostra debolezza, e nello stesso tempo ci affascina e ci esalta perché in definitiva il dolore è più potente del piacere. Certo, ci vuole la predisposizione nello spettatore e l’abilità dell’artista. La Nahmad ha scelto i mari e i cieli perché la veduta di una pianura di vaste dimensioni pur non essendo certo mediocre, arguiva Burke, e benché estesa quanto la veduta di un oceano, non può mai fare un’impressione così grandiosa come l’oceano che è un oggetto di terrore. I mari di Barbara, infatti, non sono quelli di un Guccione, per dire, il Mediterraneo confortante della Sicilia, e i cieli non sono quelli primaverili e rocaille del Tiepolo, ma assecondando esperienze personali e viaggi, sono quelli del Nord che generano lo stupore; e i greci significavano lo “stupore” col verbo thaumazein che è un turbamento che affascina, ed è, secondo Aristotele, il principio della filosofia. Per questo Barbara Nahmad non ha scelto la pittura veloce e frettolosa tipica dell’informale che è spesso una via di fuga (tutto sommato semplice per gli artisti di talento qual ella è) dalla figurazione, neppure ha optato per l’astrazione che, paradossalmente, nel suo essere di programma aniconica è comunque lirica perseguendo i sentimenti provocati, come nel caso della musica, per via emozionale e non razionale: i suoi quadri restano invece frutto di quella pittura-pittura, quasi acribiosa, di un artista figurativo che smette di raffigurare e si mette a riflettere su quel “groviglio” che è la vita e il suo dispiegarsi. E se pensiamo all’etimologia della parola sublime (sub limes) cioè uno stare appena sotto il limite, nel punto più alto possibile, capiamo anche il tentativo della Nahmad di raffigurare con insistenza la linea dell’orizzonte dove i colori di sopra e di sotto si mischiano, una linea retta che non esiste se non per via della limitatezza della nostra vista incapace di cogliere la sfericità della terra, una linea che tecnicamente è anche un confine o una soglia (e qui torniamo al significato primo di limen) e che può essere rappresentata solo per approssimazione, poiché la soglia si definisce nell’attraversamento e, nel caso dell’orizzonte, mai si raggiunge perché è sempre un poco più avanti di noi. Questa indefinitezza, propria della sfera che non ha confini, produce quel tendere (Streben) all’assoluto, senza possibilità di raggiungerlo, e il conseguenziale struggimento (Sehnsucht) caro ai romantici; è il mistero del mistero che è visibile ma non comprensibile, a volte comprensibile ma non visibile. “Il sublime è l’eco di un alto sentire”, lo ha scritto nel primo secolo dopo Cristo lo Pseudo Longino, indicandone la natura propria di simbolo che rimanda sempre a qualcosa d’altro e che mai si può definire: come le nuvole in perenne metamorfosi.

 
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