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E PLURIBUS UNUS
di Alessandro Trabucco

Nel corso della storia, le azioni più indegne e vergognose sono
sempre state accompagnate da dichiarazioni di nobili intenti,
e dalla retorica della libertà e dell'indipendenza.
Se fossimo onesti, non potremmo che confermare il commento di Thomas Jefferson
sulla situazione dei suoi tempi: "Non crediamo che Bonaparte abbia combattuto
soltanto per la libertà dei mari più di quanto crediamo che l'Inghilterra stia combattendo
per la libertà dell'umanità. L'obiettivo è sempre lo stesso: conquistare il potere,
la ricchezza e le risorse di altri paesi".


Noam Chomsky, Interventi, Fandango libri, 2007


La prima volta

Che queste Elezioni Presidenziali Americane rappresentino un evento epocale senza precedenti non lo mette in dubbio nessuno. Come viene vissuta dagli Europei questa attesa, entusiasmante, coinvolgente, snervante, carica di aspettative e speranze in un reale positivo cambiamento altrettanto storico? E dagli americani stessi? Dal mondo intero?
Come farsi sfuggire un’occasione unica, irripetibile, per celebrare l’importante momento di passaggio da un’epoca che ha ormai detto tutto ciò che poteva (creando disastri di immensa portata) ad una nuova era che ha la possibilità di evitare gli errori passati? Ma stiamo veramente entrando in un nuovo tempo?
Forse nemmeno nel 2012 ci troveremo di fronte ad un momento storico come quello messo in atto ora. Obiettivamente per merito esclusivo del partito democratico che ha permesso alla prima donna e al primo afroamericano di candidarsi per la prima volta nella storia alla guida della maggiore potenza del mondo, patria della democrazia.
Ma il primo fattore importante che è emerso nel corso di queste avvincenti Presidenziali è stato l’elemento di incertezza che ha caratterizzato i famigerati sondaggi, i quali hanno mostrato una continua quanto schizofrenica oscillazione di preferenze degli elettori tra i due candidati in corsa per la Casa Bianca. Dopo l’avvincente “battaglia in casa” messa in atto dal partito democratico durante le primarie per la scelta del candidato da opporre ai repubblicani, abbiamo assistito ai continui “botta e risposta” tra i due contendenti.
Enormi spostamenti di consensi da destra a sinistra o viceversa, causati anche da una sola frase sbagliata, o da una uscita infelice, hanno determinato, dalla nostra distanza, una visione preoccupante sulla chiarezza di idee del popolo americano, che non pare molto sicuro nelle proprie scelte.
Un altro fattore di novità è stato il seguente: è dal 1928 che non si presenta un candidato favorito, non si è verificata cioè la ormai tradizionale incumbency, la situazione di vantaggio posta dall’essere Presidente o Vice-Presidente uscenti.
Queste sono le elezioni del secolo, tanto importanti quanto gravissima la situazione di crisi economica che sta funestando l’intero pianeta, con i continui fallimenti delle banche mondiali.
E proprio sull’aspetto economico che si gioca il tutto e per tutto. Scrive Giuseppe De Bellis alla pagina 93 del suo recentissimo libro (gennaio 2008) La prima volta, perché dal 2008 l’America non sarà più la stessa: “Bisogna seguire i soldi, sempre. Sulla strada per la Casa Bianca i dollari indicano la via, fanno svoltare una campagna, cambiano la storia di un’elezione. Arrivano prima delle idee, prima dei programmi, prima delle promesse”. Sicuramente, come sottolinea il titolo del paragrafo appena citato, queste sono le elezioni più costose di sempre, circa un miliardo di dollari, 500 milioni per candidato, “più tutto quello che sarà lasciato per strada dagli altri che si fermeranno prima delle elezioni generali”.
Noam Chomsky il 18 marzo 2004 scrisse riguardo le imminenti elezioni che hanno visto la riconferma di Bush alla Presidenza: “L’offerta politica negli Stati Uniti è limitata e la gente sa che le elezioni sono in gran parte distorte dai soldi. La definizione di John Kerry come versione light, di Bush è esatta, ma la scelta tra le due correnti di quello che ormai è un unico “partito del business” può fare la differenza, adesso come nel 2000.”.
Lo stesso Chomsky qualche mese dopo affronta il problema della costruzione della democrazia negli Stati Uniti, che accusa di essere troppo impegnati ad “esportarla” nel mondo da esserne pericolosamente carenti in patria.
La differenza tra le scorse elezioni e quelle attuali sta proprio nelle caratteristiche dei due candidati. Se Kerry e Bush non erano altro che “due candidati provenienti entrambi da famiglie ricche e politicamente influenti, che hanno fatto parte della stessa società segreta (la Skull and Bones) che educa i suoi membri allo stile e ai modi del potere, e che possono presentarsi agli elettori perché sono finanziati dagli stessi poteri finanziari”, Obama e McCain offrono una novità e varietà maggiori (non naturalmente sulla ovvia provenienza benestante di entrambi), sia dal punto di vista anagrafico, sia da quello più strettamente strategico.
Un bel dilemma per gli americani: se l’uno è ritenuto troppo giovane e inesperto, l’altro a sua volta rischia di pagare per l’età avanzata. Inoltre il candidato repubblicano viene accusato di essere un “clone di Bush” e quindi di non apportare alcuna novità nell’amministrazione americana.
La convention democratica a Denver, tenutasi a fine agosto, ha rappresentato la consacrazione del candidato afroamericano. Il discorso di Barack Obama ha emozionato, eccitato, stupito, e ha battuto tutti i record di ascolti. “Lui è l’uomo giusto”, ha affermato l’ex presidente Bill Clinton. Anche McCain si è complimentato. Da parte Repubblicana la Convention di St. Paul di qualche giorno dopo si è trasformata inizialmente, per via del pericolo rappresentato dall’uragano Gustav, in una riunione a sostegno delle persone colpite dal cataclisma. Il candidato conservatore pare che abbia ricolmato lo svantaggio facendosi portavoce di tutti gli americani, senza differenze ideologiche. E il suo asso nella manica e’ stata la nomina di una donna come suo Vice, il governatore dell’Alaska Sarah Palin.
Ma aldilà dell’aspetto “emozionale” e spettacolare del momento che stiamo vivendo, sarebbe interessante, come dovrebbe essere sempre, ragionare sui programmi sui quali entrambi gli aspiranti alla presidenza hanno basato la propria candidatura.

Winner-take-all
L’Election Day, che una legge federale del 1845 ha stabilito avvenga il martedì dopo il primo lunedì di novembre (escluso il primo del mese), è in effetti il giorno conclusivo di una serie complessa di procedimenti elettorali. In realtà è indicato come l’ultimo giorno utile per votare. Il singolo elettore ha anche la possibilità di richiedere il voto per corrispondenza o il voto anticipato. I metodi di votazione sono per la maggior parte affidati a sistemi elettronici, che hanno comunque causato non pochi problemi e polemiche nelle due ultime elezioni del 2000 e 2004... Ma non tutto si esaurirà il fatidico 4 novembre 2008, il sistema elettorale americano prevede un “doppio passaggio” elettorale. Nell’Election Day ogni singolo cittadino voterà i cosiddetti Grandi Elettori che in dicembre si riuniranno nel proprio Stato a votare, con scrutinio segreto, il Presidente e il Vicepresidente, i quali assumeranno ufficialmente la carica il 20 gennaio 2009.
Con questa esposizione di arte contemporanea intendiamo omaggiare a modo nostro queste Presidenziali Americane, senza alcuna pretesa esaustiva sulle problematiche elettorali e sui dilemmi politici e sociali che si appresterà ad affrontare il vincitore. L’arte ha da sempre rappresentato l’aspetto più avanzato della consapevolezza umana e i suoi rappresentanti, gli artisti, a volte hanno pagato cara la loro libertà creativa ed espressiva.
Da qui, dall’Italia, l’evento viene filtrato per forza di cose dai media che probabilmente ne fanno emergere soltanto l’aspetto spettacolare tralasciando i problemi reali e quotidiani dei cittadini.
Scendere per le strade e sentire le singole voci del popolo americano come fa Michael Moore sarebbe l’ideale, ma noi ci limitiamo ad interpretare le informazioni così come ci vengono date.
Nel bene e nel male l’America rappresenta il potere economico, culturale, politico e militare col quale il mondo intero si deve comunque sempre confrontare, malgrado i difetti e la superficialità, data dalla diffusione planetaria di modelli omologanti e spersonalizzanti.
Roberto Quaglia, nel suo articolo Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sull’11 settembre (e su tutto il resto) e non avete mai osato chiedere scrive: “Io non sono per nulla antiamericano. So di essere cresciuto all’ombra degli archetipi culturali americani che hanno imbevuto il tempo libero di tutti noi. Ho letto infinitamente più libri scritti da americani che libri di italiani così come ho visto assai più film americani che italiani. Ogni tanto addirittura mangio da MacDonalds (mai quando sono in Italia, però, dove il mio buon gusto – non un’ideologia – mi fa sempre trovare alternative migliori), riuscendomi tutte le volte a stupire dell’incredibile assenza di varietà di ciò che mi ritrovo a masticare e tuttavia traendone quell’inquietante senso di tranquillizzazione che la riconoscibilità di un’esperienza produce.”
Non possiamo che condividere.
I 18 artisti invitati, Romano Baratta, Michele Bella, Fabrizio Braghieri, Giulia Caira, Leonida De Filippi, Nicola Di Caprio, Daniele Galliano, Francesco Garbelli, Daniele Girardi, Paolo Grassino, Paolo Leonardo, Bartolomeo Migliore, Barbara Nahmad, Andrej Mussa, Silvia Negrini, Francesco Sena, Kinki Texas, Alessia Zuccarello hanno avuto la possibilità di riflettere in modo autonomo su questo evento di enorme importanza, mantenendo integra l’imparzialità tipica della creazione artistica, intesa quale efficace ed incorruttibile termometro degli eventi, senza subire alcun condizionamento esterno.

 
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