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CAMPOLUNGO
L’ORIZZONTE SENSIBILE DEL CONTEMPORANEO
di Vittoria Coen
Quando, nel moltiplicarsi delle differenze, nel complesso proliferare dei contesti e delle loro varianti, sembra predominante la caduta delle esclusioni ed appare piuttosto vincente il sottile intrico delle distinzioni, che di fatto lo è, perché tale è l’immagine che leggiamo costantemente nell’arte di oggi, il nocciolo duro, quello col quale ci si deve pur sempre misurare, resta la domanda fondamentale, l’atteggiamento verso la vita, l’orientamento personale verso i grandi temi.
Entro l’evidente flessibilità delle soluzioni di cui gli artisti sono oggi prodighi, la risposta è comunque individuale, l’artista non ha obblighi di scuola, gli effetti sono mutevoli e magari anche sconcertanti. Che lo si voglia o no, nel suo campo l’artista fa i conti con se stesso anche quando sembra che stia alla finestra, curioso e onnivoro o deluso e scettico. E i toni del lavoro riflettono, in questo senso, quella che chiamiamo dialettica dei contrari.
Si tratta di atteggiamenti, certo, di affinità o di contrasti: la storia dell’arte ne è ricca. Ma sottolineandone le manifestazioni si legge quanto i referenti siano ancora fondanti e quanto intorno ad essi si svolga la rappresentazione delle forme artistiche nella nostra civiltà, apparentemente così disincantata. Essere artefici o essere esecutori, sarà forse questo il punto, il vero dilemma.Questa mostra non è quel che si definisce una collettiva di confratelli legati da un indissolubile giuramento di fedeltà. Non sarebbe sensato e ragionevole che personalità così diverse si obbligassero ad una fede comune. Sarebbe, oltretutto, miseramente antistorico.
C’è una potenzialità nel clima attuale, dopo tanti azzeramenti. Azzerare può sembrare doveroso e bello, ma naturalmente non dura all’infinito, come accade ogni volta che un movimento estirpa dalle radici il suo avversario del momento, come è accaduto quando epiche battaglie artistiche si sono spente per esaurimento, per eccesso di energia combattiva e per consunzione di creatività.
Si sono viste apoteosi e cadute fragorose, operazioni diligenti di recupero e di rivitalizzazione, revivalismi, manierismi, parodie intenzionali e parodie involontarie, incidenti di percorso, kitsch programmati, ermetismi austeri: le tante forme della rivolta contro il modernismo, icone nuove della postmodernità, matrimoni morganatici fra alta tecnologia e nostalgie neoclassiche.
Ma accadono fatti interessanti. Si continua a ripetere che viviamo nella civiltà delle immagini, ovvero dello spettacolo, in un mondo perennemente in vetrina, che non ha e non vuole avere segreti e di fatto appare così nella spettacolarizzazione di eventi, minimi o massimi, strettamente personali o planetari. Il raccontatore ufficiale, la televisione, per esempio, racconta ormai specialmente se stessa, rievoca, ripete, mette in scena le sue piccole storie enfatizzate. Rimescola i ruoli, gli interpreti e i personaggi in uno sterminato salotto sempre illuminato. E intanto nella generale teatralizzazione si produce un singolare spostamento, lo spazio, l’architettura delle storie si allarga a spese delle storie stesse, lievita e si riempie di quel niente che deve apparire notevole e convincente.
Fra atteggiamenti di consenso, o velate ironie, anche nel mondo dell’arte una stagione molto vivace ha fatto delle apparenze, naturali o costruite, il suo campo d’azione indiscusso, spesso anche con operazioni tutt’altro che banali, intellettualmente molto complesse.
Ora si va sviluppando una diversa coscienza interna nel processo artistico. Una cura particolare si esercita, un’azione attenta è rivolta ai materiali, ai soggetti, nel rispetto della memoria in un confronto disinibito con una razionalità esasperata alla quale si contrappone un diverso tipo di logica, che fa i conti con altre presenze più complesse e ormai urgenti, dal punto di vista esecutivo, la qualità dell’azione artistica in quanto tale, dal punto di vista intellettuale ed emotivo, la ragione interna dell’attività dell’artista senza apriorismi.
Esiste un’attualità problematica oggi, che non insegue ipotetiche mete di evoluzione e di progresso, ha chiuso i conti con le utopie ma non rinuncia affatto a rivendicare l’identità. In questa ricerca, indubbiamente ambiziosa, ma più che mai legittima, l’arte moltiplica i suoi linguaggi. La pittura in particolare, gode di possibilità che le erano state negate, riacquista i suoi diritti, si riappropria di tutto ciò che alcuni consideravano trapassato, coperto per sempre dalla polvere del tempo.
Gli artisti stanno ricominciando a raccontare, accettano di essere letti secondo la loro propria grammatica, ne facilitano spesso la comprensione fornendo segnali sulle loro pratiche creative, sulla loro progettualità, sulle loro motivazioni, anche nella condizione di veloce transitorietà, che nella mobilità accresciuta può essere anche una pausa per un obiettivo che è pur sempre in movimento. Si fa strada, nonostante tutto, un’atmosfera più riflessiva. Fra le immagini che potremmo scegliere per indicare la situazione attuale, infatti, credo che quella del ponte sarebbe la più pertinente. Ponte significa passaggio ma anche mediazione, un arco che non deve temere violenze di acque indisciplinate, e sa condurre attraverso interrogativi, ancora incertezze e rischi, ma sempre secondo percorsi autentici.
Ora noi possiamo chiamarlo, in vari modi, questo fatto recente se non recentissimo, che è l’incontro fra le forme diverse dell’attività artistica. Non recentissimo, infatti, se si pensa all’idea di arte totale che ha attratto, ad un certo momento nel secolo scorso, tanti esponenti della cultura europea, in settori considerati tradizionalmente separati se non addirittura in contrasto fra loro, per quelle artificiali battaglie fra pittura e scultura, arti maggiori e arti minori, fra umanesimo e tecnologia, che animavano di inutile fragore la letteratura artistica. Quello dell’arte totale era un principio, per così dire, e in un certo senso, costruttivista, non per restaurare l’ideale di un orbis pictus universale fonte di un’organicità e di un rassicurante senso di sintesi e di armonia, proveniente magari ( in qualche caso lo si è pensato), da entità, da forze di natura metafisica, il migliore dei mondi possibili che si apriva all’indagine filosofica come un libro da leggere. Era piuttosto un modo particolare di guardare in tutte le direzioni e di parlare tutte le lingue, le più note e consacrate da secoli di cultura, come quelle che da poco si presentavano sulla scena.
Qualunque fosse, al fondo, l’idea primaria più o meno cogente, ne risultava comunque un benefico allargamento di orizzonti, un arricchimento per tutti in ogni senso, maggiore curiosità e speranza di soddisfarla, occasioni offerte ai più avventurosi di muoversi in situazioni nuove, in nuovi continenti, magari nuove galassie, maggiore libertà in assoluto. E i risultati ne sono testimonianza eloquente, dalle arti visive alla musica al teatro, alla letteratura, al cinema.
Possiamo, dunque, accettare termini d’uso ormai comune, riferiti a fatti che sono davanti ai nostri occhi. E’ questo forse il senso dello scorrere del tempo, che registra a volte una certa stanchezza o irritanti operazioni di reiterazione o la pigrizia mentale dalla quale esse generalmente provengono. Arrivate al punto di rottura, è ormai chiaro per tutti che faranno esplodere il magma di materiale incandescente che le energie ctonie scagliano fuori della crosta non più tanto compatta. Si aprono crateri, qualche cosa si libra molto in alto, un fiume riceve nuovi affluenti, da una superficie ghiacciata si rivelano correnti impreviste.
Per ciò chiamiamolo come si vuole, contaminazione o altrimenti, osserviamo piuttosto il fenomeno e non facciamone una ricetta.
Vediamo così pittura e video, matita e pennello, rette e curve non più fieramente avverse, acrilico e olio, carta, tela , metalli, materiali che sfidano il tempo, orgogliosamente proposti e imposti, passato e presente in una nuova amichevole gara. Se ora fra gli artisti, più che di ambiziose visioni ecumeniche, si tratta soprattutto di libertà, è proprio lo sconfinamento da un corral ad un altro senza spargimento di sangue, è qui che si acuisce l’interesse di chi guarda.
Certo qualcuno può pensare che l’iconoclastia è il sale sull’insipido corso del vivere, almeno con un gesto, che non è poi restato senza imitatori. Può anche darsi che ci sia un dada segreto in tutti gli uomini, anche nei più rispettabili conformisti, anche se non c’è più un romeno Tristan Tzara che può giocare a scacchi con Lenin al Cafè Terrasse a poca distanza dal numero uno dello Spielgasse di Zurigo.
E’ vero che quasi niente è nato nell’arte per via evolutiva. E’stato così per l’arte moderna, è stato così per il rifiuto di essa.
Si ritiene di solito che ci siano stati tempi in cui esisteva un’unità culturale e spirituale assoluta, senza fare troppa attenzione alla dialettica interna mai scomparsa. Ma se pure c’era stata l’arte moderna l’ha rotta, ha moltiplicato le voci di questa dialettica anche se non ha intinto, tutta compatta e in blocco, “la penna in un liquido nero con delle intenzioni manifeste” come voleva dada, ha agitato le acque con singolare forza rivoluzionaria.
Ora il campo lungo ci consente di leggere una nuova liberalizzazione delle scelte, poetiche attuali policentriche, fluidità incessante, un leit motiv che si mescola con un altro, attenzione al progresso tecnologico come strumento e manualità che non si attesta su se stessa staticamente ma si rinnova, percorsi mentali che non portano più sbilanciamenti troppo audaci ma, per esempio, guadagnano posizioni nella riconquista dello spazio accettando, nel contempo, misure più contenute e controllabili, nuovi inediti slanci del colore fino a policromie vivacissime, abbattimento della vecchia barriera fra astratto e figurativo, fra esigenze di purezza, casta rinuncia e affondi disinibiti nel grande contenitore di tentazioni estetiche. Una situazione che definirei davvero estroflessa.
Ora e qui, dunque, per esempio, l’indiscutibile fedeltà mimetica di certi artisti, quasi documentaria, non deve trarre in errore: c’è sempre in essa qualche cosa di nascosto o di sottinteso da comunicare. La fedeltà può nascondere sensi diversi, più allusiva che descrittiva rimanda ad altro. L’istantanea che coglie il dato in una presumibile anonima fedeltà non è essa protagonista, non è la depositaria di una formula compositiva a se stante, risponde ad una tonalità variabile, curvilinea, del tempo, umano innanzi tutto.
Una certa mondanità delle cose che alcuni artisti hanno scelto è sempre contenuta attentamente senza iperboliche orge di un troppo che alla fine si mostrerebbe superfluo, inutile, anzi, dannoso, conserva sempre una sapiente, ironica leggerezza.
Resta sempre presente l’attenzione ai valori sensibili, che sia scoperta come una dichiarazione di intenti, come un autoritratto interno d’artista, o più sommessa, non allineata a mode peraltro sempre in corsa su di un tapis roulant inarrestabile. Altrettanto variamente appaiono qua e là, accanto al tecnologico mai però hard, naturali compagni di strada, il geologico, il vegetale e l’umano, accolto questo, con disarmato calore, non proprio un “idillio” ma certo un rimando a ciò che appare ancora giusto mettere in scena.
Ed è innegabile una certa “presenza del passato” (Portoghesi usò quest’espressione a proposito dell’architettura), altro fattore di complessità, da consentirne l’uso in tutta tranquillità perché in effetti non in tutti i campi dell’arte e della cultura era stato in vigore un proibizionismo assoluto ( se escludiamo i futuristi) e, d’altra parte, non leggiamo negli artisti di oggi più interessanti una regola imposta che esiga particolare rigore filologico e revivalismi programmatici, già abbondantemente oltrepassati, a quanto sembra.
Valerio Berruti propone un micro mondo costruito organicamente e visivamente aperto. E’, malgrado tutto, la riscoperta dell’individualità che riappare attraverso il movimento anche nell’uniformità delle forme.
L’ordine, la regolarità standardizzata, quasi burocratica che dominava negli interni scolastici precedentemente, scolaretti ben allineati, perfetti nelle loro divise, così rassicurati e rassicuranti, si sono rotti. Qui essi si muovono, parlano, corrono, giocano, salutano, probabilmente litigano, vivono, e mentre vivono cancellano la banalità dell’anonimato: Peanuts, molto domestici anche per noi.
Se la parola animazione ne comprende un’altra, anima, è evidente che queste non sono più figurette, modellini, tipi, ma persone, vite in corso d’opera, e l’artista, così come noi, le guarda con quella distanza delle rimembranze che immediatamente ci invade. Il silenzio si riempie di suoni. C’era già una “composizione musicale” (l’espressione è dell’artista), una musicalità virtuale, che qui si rende manifesta, esplicita, si arricchisce nello scorrere ininterrotto dell’immagine. E l’anonimo, che potrebbe apparire “senza qualità”, per dirla con Musil, si riprende invece una naturale singolarità. Fra generico e concreto, non sono modellini assolutizzati i protagonisti di piccole storie, brevi incontri e scontri, un tema narrativo che si rinnova di continuo.
Le forme volutamente così elementari, come è comprensibile che siano, entrano disinvoltamente nell’orizzonte tecnologico, vi si ambientano, ne fanno parte con naturalezza. Usando insieme ironia e lirismo, si può dunque trasformare una rappresentazione che si propone neutrale, in un originale tratto di vita.
C’è qui, inoltre, in un certo senso, una novità rispetto al piccolo mondo antico dei bambini “perbene” a cui Berruti ci aveva abituato. Queste creature colte nel vitalismo di una fase di crescita così complessa esprimono, sì, una personalità appena abbozzata, ma già fornita di elementi da leggersi come segni di un privato non necessariamente prevedibile, di un futuro che, appunto, scorre.
In una espressione “la semplicità della complessità” Enrico T. De Paris sintetizza il suo percorso, fatto di contaminazioni stilistiche e di materiali, pittura, metalli, scultura, installazione, ready made…una vitalità creativa che da sempre accompagna il suo lavoro e che ora si concentra sul rapporto tra ricerca artistica e ricerca scientifica. Questo legame, questo parallelismo culturale, invera nell’artista quei processi evolutivi, quei cambiamenti planetari che determinano cambiamenti storici, sociali, economici. De Paris vuole forse dirci che tutti i molteplici aspetti della conoscenza devono essere osservati, analizzati, per comprendere le complessità del nostro vivere. E lo fa con strumenti ed elementi compositivi che, ben dosati e ben calibrati, regalano al suo lavoro una suggestione ludica del tutto personale. La sua “disperata ironia” assembla oggetti, colori, suggestioni ottiche particolari, prospettive aggettanti e in alcuni casi davvero materiche, che popolano il suo mondo. Nei suoi vetri soffiati vivono piccoli uomini e piccoli animali, in mezzo a luci e simulazioni del DNA. De Paris racconta l’anatomia dell’animo umano, dentro e fuori la realtà , nei microcosmi paralleli che affollano le sue creazioni, quelli stessi che ci riportano al nostro gioco infantile, ad una personale e intima età dell’oro che può essere in qualche modo messa in discussione da inquietanti presagi. Mantenere una lucida costruzione della forma e nello stesso tempo, abbandonarsi ai nostri migliori istinti, sopiti dalle convenzioni e dai luoghi comuni, potrebbe essere questa la chiave di volta. Allora, più che di sculture potremmo parlare di eco-
Shay Frisch elabora un linguaggio personale nella combinazione e nella contaminazione degli elementi. Punto nodale delle sue esperienze estetiche è la luce. L’artista la cattura, la “imbriglia” per poi liberarla secondo criteri precisi in un minimale e coerente processo concettuale. Alla prima ispirazione segue un percorso teso a modificare l’idea iniziale in mille varianti, che poi riconducono alla alla partenza. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un ready made in realtà è, in un certo senso, il risultato finale di un processo complesso di combinazioni che vengono sottoposte ad interventi di decise eliminazioni.
La creatività nell’artista risiede proprio nel risultato, che vuole essere scrupolosamente “oggettivo”, o meglio, pienamente corrispondente all’idea. I materiale usati possono essere i più diversi, poiché rappresentano esclusivamente i media per arrivare al risultato nel modo più pertinente possibile.
Prese, lampadine sono anche forme che diventano protagoniste dello spazio. In Supeficie assemblata 2489 B, ad esempio, del 2007, concettualmente, Frisch elabora un assemblaggio, e lo fa con un effetto particolare, come a voler creare un monocromo in rilievo. La luce attraversa la superficie, e da questi elementi nasce un’unità, che, come accade nei casi di più rigorosa obbedienza da un metodo personale, conserva un’interna possibilità di ipotetici sviluppi.
La naturale indipendenza di Frisch conduce infatti a risultati sempre diversi, ottenuti in ogni caso con la disinvolta sicurezza dell’artista che mescola senza difficoltà i materiali, semplici, come è stato notato, conferendo loro aspetti ed effetti che non sarebbero presenti necessariamente, ma sono solo molto vagamente impliciti nelle funzioni che l’artista poi conferisce all’opera compiuta.
Si ispirano alle favole di Fedro i ritratti animali di Federico Guida, che sviluppa un percorso individuale attraverso una mirabile tecnica pittorica. Dai pugili, ai ritratti di fotomodelli invecchiati, a quelli infantili e infine, agli autoritratti, è proprio attraverso questa messa a fuoco della “sembianza” che l’artista svolge la sua ricerca; e scandaglia l’animo umano, così, come in questo caso, invece, il nostro modo di sentire e di vedere nell’orso, ad esempio, come metafora, come forma inquietante nel suo apparire fiero e feroce.
Ma, come è stato notato, l’orso e il toro rappresentano i due opposti andamenti nel mondo finanziario, mondo che Guida ha analizzato fin dal 1997 con quadri ambientati nelle sale di borsa mondiali.
Come dicevo animali come metafore, icone adatte a molteplici considerazioni, di natura sociale e politica. Guida si serve di un linguaggio pittorico al limite del verismo, proprio per rendere ancora più efficaci queste immagini simbolo del suo universo poetico. Le sue figure suggeriscono una profondità grazie proprio al gusto per il particolare, per la narrazione estetica attraverso un cromatismo fatto di chiaro scuri potenti, di contrasti cromatici avventurosi.
Non è, infatti, facile, in un momento storico che sembra voler riecheggiare un certo passato evenemenziale legato al concettualismo storico, dichiararsi completamente “pittore” attraverso un’arte che se stilisticamente non dà certo adito ad ambiguità interpretative, contenutisticamente sottende molteplici significati. Nella evidente fisicità dei suoi protagonisti, Guida ci costringe ad una comunicazione diretta e immediata con l’opera, che non fa sconti a niente e a nessuno, ma che ha anche una misura che non conduce mai all’eccesso.
Riccardo Gusmaroli e la pittura a tutto campo; è questo il punto di identificazione in questi lavori. Una volta maturata nel tempo la consapevolezza della forma e del colore insieme, si tratta per l’artista di esplorarne gli aspetti, rischiando anche di perdersi in un labirinto peraltro entusiasmante di possibilità pressoché infinite.
Nei suoi acrilici di grande formato, si dispiegano motivi formali, perfettamente regolari come può accadere di scoprire in certi accordi musicali che ci sembrano inevitabili per le leggi stesse dell’armonia; si libra un mondo di magica libertà fantastica, ora retta da cadenze uniformi e complementari, ora assolutamente libere e irripetibili.
Vengono da un affollato nowhere, sono figli di culture multiple miniaturizzate, hanno padri che forse non li riconoscerebbero come propri. Si dà anche questo, per la magia di certi interventi.
In alcuni casi i segni gremiscono quello che è, in fondo, un non spazio. In altri si direbbe che un singolo elemento possegga un reale potere direzionale. La situazione è lo spazio ottico, e l’identità è data dall’insindacabile felicità combinatoria, che allinea linearità stilizzate a motivi lussureggianti.
C’è, indubbiamente, in questo cosmos, anche un aspetto ludico che vola sulla leggerezza, affranca la pittura militante dai debiti delle tendenze storiche, e finisce col suggerire letture dispersive.
Questo è anche ciò che l’alchimia dei colori è in grado di provocare, esaltazione estetica e rinuncia a ricognizioni topografiche, in una piacevole perdita di orientamento, forse poi soltanto apparente.
Gli intensi fondi stellari, le tonalità intense, il blu che ricorda certi mosaici bizantini di Ravenna, i vortici di segni ci catturano : una ricerca di armonia che non rinuncia mai a se stessa.
Dallo studio approfondito della pittura orientale al progressivo approfondimento delle ricerche di artisti occidentali che a tratti si sono ispirati all’Oriente come Klee e Kline, il lavoro di Min Jung Kim conduce una sua personalissima ricerca attraverso l’analisi del segno e del colore, grazie anche allo studio della calligrafia. L’universo dell’artista è un vortice di calibratissime tonalità cromatiche, giocate con eleganza e senso estetico, che creano una sinfonia di toni contrastanti accanto a impercettibili sfumature di monocromi. La sua è una pittura concettuale, realizzata soprattutto, dalla fine degli Anni ’80 ad oggi, attraverso un intrigante uso della carta, utilizzata in molteplici strati e sovrapposizioni dopo un sottile gioco di combustione. L’effetto, il gioco ottico, suggeriscono una forma tridimensionale che soprattutto negli esiti spiraleggianti porta lo sguardo ad entrare dentro l’opera. L’eleganza delle sue opere non è affatto un contributo formale, ma è sostanza stessa del lavoro che è volto a cogliere gli aspetti più sensibili della percezione. Come l’osservatore vede l’opera di Kim, sia che si tratti di “sculture”, giochi enigmatici creati dai volumi e dal loro rapporto con la luce, sia che si tratti di opere bidimensionali, questo è il punto nodale.
L’artista trasforma così il concetto di pittura e di scultura in un’altra cosa, attraverso un sapiente gioco ottico di leggerezza. Qua e là, tra un verde chiaro e un rosso compaiono i bianchi e i neri, luci ed ombre, positivo e negativo, vuoto e pieno. Alla frammentazione e alla scomposizione, effetti derivati da una visione ravvicinata dell’opera, si contrappone una suggestione di generale compattezza della materia e della forma se si guarda il lavoro da lontano. Materialità e immaterialità sembrano, quindi, le due anime del lavoro, o meglio, due momenti imprescindibili del nostro guardare con attenzione. Il dettaglio è importante, così come la visione di insieme, Kim affronta lo spazio con padronanza totale, forza e al tempo stesso, leggerezza.
In un recente intervista Francesco Lauretta, tra l’altro, scrive : ………..” per me l’arte era e doveva essere solo oggettiva. Adulto, quando compresi che ormai, a fine millennio, anche la pittura poteva suggerirmi posizioni concettuali cominciai a riflettere sulla meta-
Probabilmente è qui il punto fondamentale per meglio comprendere l’opera dell’artista. Le sue immagini, così forti e così nitide, senza contare i soggetti più diversi e i titoli spiazzanti, sono amplificate nei colori, nel segno e nelle suggestioni visive che provocano nell’osservatore.
Si ama la pittura, ma non ci si abbandona ad essa. Il metalinguaggio serve per dire altro, per raccontare drammi , estremizzazioni, contraddizioni, sensazioni momentanee, perfino un momento di relax. ..”Della pittura canto il collasso”-
Le opere di Lauretta entrano ed escono dall’ipotetica “cornice” e intercettano segnali futuri.
E’ più interessante guardare il mondo da una certa distanza, possibilmente dall’alto, da una collina, da un balcone, da un ponte, per poter “riconoscere” meglio, di certi luoghi, le atmosfere, le suggestioni, ed anche le contraddizioni. Il viaggio di Domingo Milella è un unico viaggio, anche se in molti luoghi; paesaggi naturali e paesaggi urbani si intrecciano, comunque, sempre grandi spazi, affollati spesso dalle contraddizioni della nostra società, abusi edilizi, incuria dell’uomo, ignoranza e profitto che hanno “animato” certa urbanizzazione di decenni fa, e poi un paesaggio notturno, improvvisamente, dalle luci avvolgenti. Odio e amore, considerazioni razionali e suggestioni, coinvolgimenti emotivi, come quando l’artista parla della sua città natale, Bari, così ricca di storia, così misteriosa per chi non la conosce a fondo come lui, così dialetticamente ambigua.
La distanza allora, la messa a fuoco da un punto di osservazione più alto, al di sopra dell’orizzonte indagato, permette al soggetto di mostrarsi in tutte le sue componenti. Sembra a volte di sentire i rumori, gli odori di questi luoghi, che sono diversi fra loro, ma che in fondo vengono presi in esame da un sentimento che li accomuna, la curiosità di vedere oltre ciò che appare.
Uno sguardo interiore, dunque, che non accetta la prima impressione e che sfida il mezzo finché esso non gli dona le sensazioni che l’artista vuole mettere a fuoco. In un attimo la fotografia deve essere in grado di dire tutto, questa una delle sue caratteristiche principali.
Nel lavoro di Milella va colto anche un certo timbro, come se la fotografia fosse la partitura, la scrittura di una sinfonia. La luce e i suoi effetti, le forme, tutto ha una unitarietà, una omogeneità diffusa, nessuna immagine viene, apparentemente, preferita ad un’altra.
Barbara Nahmad propone frammenti di storia recente, solo alcuni fra i numerosi che affollano il suo originale Pantheon. Scelti non a caso, ognuno di essi rappresenta non solo se stesso, ma un’individualità particolarmente significativa nel suo ambito e nel suo tempo, con una profonda condivisione umana dell’artista, che si legge in tanti particolari. Questi ritratti non sono nati in punta di pennello né sull’onda di un click meccanico.
L’artista lavora, infatti, su un prodotto già concretamente realizzato nella sua ovvia caratterizzazione realistica, ma non lo violenta, preferendo puntare l’attenzione su cariche segrete di umanità. Volti che ci sono noti perché la carta stampata e la televisione ce ne hanno dato tanti esemplari, acquistano una familiarità diversa che nasce da alcuna contraffazione, semplicemente da una focalizzazione del tutto personale.
Così, mentre il mezzo meccanico non perde la sua funzione originaria, la pittura conserva, e in un certo senso riacquista la sua speciale facoltà di andare oltre il visibile, oltre l’empirico.
Che cosa mette insieme, per esempio, un giovane Dalai Lama che oggi vediamo così solenne e austero, una matura Maria Callas armata di tutte le sue risorse estetiche e del suo orgoglioso senso di superiorità, un giovane Robert Kennedy all’apice della sua carriera politica e umana?
Abolita ogni ornamentazione superflua sono gli occhi, gli sguardi a segnalare destini, gli occhi nei quali leggiamo il presente vissuto e intuiamo un futuro che già conosciamo perché questo futuro è ormai trascorso.
Barbara Nahmad possiede lo sguardo del reporter, lo sappiamo dalle sue esperienze stilistiche precedenti. Se ha rinunciato alle postazioni di prima linea è perché ora i suoi interessi sono volti più a rivelare che a descrivere. Intervenire manualmente in un’opera di scavo, non troppo crudamente traumatica, ma intensa, è un atto di riflessione, in cui questa si accompagna all’emozione. E’ ciò che l’artista ha voluto fare in questi ritratti, così veri, così esatti, così personali.
Con mano sapientemente leggera Sharon Pazner costruisce, unendo l’intimità felicemente accolta di un paesaggio domestico con l’ironia dello sguardo che ha visto, che conosce storie, che è partecipe della vita esterna interiorizzando gli oggetti stessi del vivere, per comune ed ovvio che esso sia.
Per questo motivo strettamente personale, all’artista non servono né grandi spazi, né grandi forme, le basta l’idea della forma da realizzare con estrema semplicità e raffinatezza, che si traducono in un concreto, almeno teoricamente a nostra disposizione, aperto soltanto ad un perfetto stato di sensibilità e di dialogo.
Anche l’insistita dimensione geometrica, la regolarità di un tracciato in un’oggettività apparente, non escludono presenze più amabilmente leggere (la carta), un particolare accuratamente disposto come un pizzo, e poi un intrico di chiavi che non saranno mai in grado di aprire alcunché, creano la poesia che emerge dalle cose malgrado i contrasti ai quali gli elementi rimandano, durezza o morbidezza, artigianato gentile o fatica di mestieri. E’ un vivo senso di appartenenza a rendere possibile l’incontro. Le situazioni che Pazner crea non obbligano ad alcuna “chiave” interpretativa obbligata, parlano da sole, col solo strumento del vedere. E tutto ciò che vediamo, anche ciò che appare ininfluente, pleonastico, acquista un senso diverso se lo pensiamo come una rappresentazione virtuale. Mentre si incrociano presenze e assenze, condivisioni e distacchi, emotività e riflessione, si opera una felice fusione con la qualità artistica, ed è questa ricchezza, io credo, a suggerire i toni più efficaci della lettura dell’opera, arte e vita, manifestazione della vita e sua percezione.
La misura in cui Alex Pinna si ritrova meglio è certamente la dismisura. Non esasperazione, non eccesso, soltanto quello che è per lui la via più adatta e consona alla necessità di dare sviluppo e spazio alle linearità e alle sottigliezze che egli coltiva da tempo.
Il rigore formale e l’essenzialità ne sono le coordinate principali, ed è questo rigore che rende “classiche” le su sculture, senza che ne risultino ingessate in un convenzionale principio di equilibrio e proporzioni, classiche, appunto, perché esse, al contrario, amano sfidare la vertigine e il paradosso. La soggettività acrobatica di Pinna si legge nel disegno, è scultura disegnata, nata su un foglio, e portata fino al punto estremo di sopravvivenza fisica, come se a dirigere l’operazione non fossero gli strumenti dello scultore ma l’immaginazione del disegnatore.
E’ questa libertà e indipendenza a dare alle grandi figure una suggestione un po’ magica, come esseri ai quali non può accadere niente di male perché sono in possesso di uno specialissimo dono di immortalità.
Queste figure filiformi si reggono su se stesse, autosufficienti, sono indifferenti, o divinità estranee? Nell’austerità della linea essenziale si leggono certi segnali: un dado dalla forma perfetta, oggetto d’uso e campione di simbolo, una perla-
Nella serie che l’artista chiama “Coni”, si sviluppano giochi e proporzioni che entrano in una relazione circolare fra le varie figure. Come ospiti di un prodigio naturale i singoli elementi sembrano legarsi l’uno all’altro da una forza, un’energia che li avvolge. L’equilibrio, non quello banalmente fisico, ma quello che regge l’interiorità, ha rimesso in quota e in asse rette e curve, natura e artificio, interno ed esterno, in un alternarsi di vuoti e pieni sempre aperti.